domenica 24 ottobre 2010

Saggio sull'essenza

Il fatto che l’essenza stessa di noi stessi e del mondo sia asincrona è
fuori dubbio. Ma il fatto che la creatività, la fruizione, cioè l’universo
astratto che ci permea al pari di quello fisico, è pure asincrono è meno
accettato.
Perché?
La sincronicità degli eventi è una costruzione di comodo: dato che gli
eventi sono SEMPRE incerti.


E questa è davvero una domanda cruciale! 


Proviamo qualche ipotesi.
Una citazione, Morse Peckham: “L’arte è il luogo dove ci si espone alle tensioni e ai problemi del falso mondo perché si possa poi continuare a esporsi alle tensioni e ai problemi del mondo reale”. La nostra eredità culturale, in fin dei conti, ci porta a pensare alle cose come fisse e univocamente descrivibili - e seppure è certamente vero che “l’essenza stessa di noi stessi e del mondo è asincrona”, quanti ne sono (o ne vogliono essere) quotidianamente consapevoli? Ciò che oggi molti sembrano piuttosto cercare nell’”universo astratto” è una funzione consolatoria e quanto mai rassicurante. Sperimentare che “gli eventi sono SEMPRE incerti” e che le cose pertanto non sono CERTE ma soltanto più o meno PROBABILI può essere bello, misterioso o anche esaltante ma certamente non è consolatorio e rassicurante.
Il cosiddetto ‘segno dei tempi’?  Come diceva Satie: “Sono venuto al mondo molto giovane in un’epoca molto vecchia”.

E quale campo più inesplorato del pensiero “serio” della “complessità”?

Che infatti è uno dei pensieri che oggi più appassionano: il vero cross-over contemporaneo.
Intendo cioè dire che quello della complessità sembra essere, fra le altre cose ma forse soprattutto, l’ambito privilegiato dove possono incrociarsi creativamente le più diverse e stimolanti forme di pensiero. Un affascinante gioco di leve e punti d’appoggio concettuali. Azioni e retroazioni. Dove ciò che conta sono i sistemi dinamici, decentrati, auto-organizzantisi, aperti, adattativi.

Inoltre lo studio dei sistemi complessi è per primo esso stesso un sistema complesso. C’è chi lo definisce ‘il margine del caos’. Morris Mitchell Waldrop: “Il margine del caos è dove nuove idee e genotipi innovativi erodono senza tregua i confini dello status quo, il campo di battaglia perennemente in bilico tra inerzia e anarchia”. Mi vengono in mente letture affascinanti quali il testo dove Lee Smolin ipotizza che il cosmo e le leggi della fisica seguano una sorta di evoluzione darwiniana, l’intervista dove Brian Eno paragona l’ascolto della musica minimalista al funzionamento dell’occhio della rana, il libro di Morris Mitchell Waldrop sull’Istituto di Santa Fé (che non a caso si intitola “Complessità”) o il saggio di Kevin Kelly su ‘la nuova biologia delle macchine, dei sistemi sociali e del mondo economico’.
E la musica? La musica sperimentale presenta proprio situazioni in cui viene definita una struttura, vengono forniti degli input e di cui si seguono le dinamiche evolutive (ogni volta diverse). Un gruppo di musica sperimentale è insomma una sorta di laboratorio dove si lavora su ciò che tentavo di descrivere prima: è un sistema dinamico, decentrato, auto-organizzantesi e auto-regolantesi, aperto, adattativo, che lavora a più livelli. Un sistema ‘euristico’, secondo la definizione data dal cibernetico Stafford Beer: “che muove alla ricerca di un fine sconosciuto con l’esplorazione, valutando continuamente o ripetutamente il procedere secondo criteri noti”.
Ho più volte posto una forse pretestuosa dicotomia fra musica sperimentale e musica classica-tradizionale. Non che disconosca a quest’ultima alcun genere di complessità, anzi. Il fatto è che il problema - anche se in due parole non riesco a esprimerlo meglio - non sta nella creazione di nuove strutture ma nella creazione di nuove direzioni. La musica come processo.  Comunque sia, all’atto pratico, tutto ciò cosa può avere a che fare con la ‘bellezza’ che si è soliti chiedere all’opera d’arte? Forse ha lo stesso fascino e la stessa bellezza che possono avere un alveare, il traffico di un raccordo autostradale visto dall’alto o la disposizione dei ciottoli di una spiaggia. Non spetta a me dirlo. Probabilmente Cage direbbe che la bellezza e la noia non sono fuori ma dentro di noi.  A questo proposito termino questa zuppa incredibile ponendo un problema: abbiamo un compositore (non sempre, ma a volte capita), uno o più esecutori e un pubblico. Dove si colloca l’opera d’arte?

(1) nella composizione?
(2) nell’atto esecutivo?
(3) nel momento della fruizione?
(4) in qualche punto a metà strada fra i tre?
(5) distribuita più o meno uniformemente?
(6) si trova invece da qualche altra parte?
Angarika Govinda: “Se, anziché una sequenza, consideriamo una simultaneità di determinati fenomeni che appaiono privi di collegamento tra di loro, saremo spesso in grado d’osservare un parallelismo, una coincidenza di determinate qualità non condizionate casualmente o temporalmente, ma che offrono piuttosto l’impressione d’uno spaccato d’un tutto organicamente connesso”.

1 commento:

  1. Ho iniziato a riflettere ieri sera su questi concetti e ancora non ne sono uscito.
    Sarà perché è estremamente complesso cercare una spiegazione della complessità, e forse non ne esiste nemmeno il senso.
    Mi piace molto il cross-over che hai organizzato: anche il concetto di cross-over, così attuale, credo non sia altro che un avanzamento della capacità dell'uomo di adattarsi all'ambiente circostante, e quindi all'affrontare studi apparentemente distanti tra loro cogliendone e approfondendone i legami (o le tangenti).
    In ogni caso devo andarmi a leggere sicuramente molti degli autori citati, in primis Smolin, Waldrop e Kelly.
    Grazie per l'analisi.

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